la morsa

La Morsa

Con agile salto nel tempo, dopo numerosi testi di autori contemporanei, Jacopo Bezzi ha scelto di mettere in scena, con il dramaturg Massimo Roberto Beato – qui anche interprete del marito Andrea – il primo testo per il teatro scritto da Luigi Pirandello nel 1892, che andò poi in scena nel 1910, al teatro Metastasio di Roma, per l’appassionata persuasione di Nino Martoglio nei confronti dello scrittore, ancora lontano dall’idea che il palcoscenico sarebbe stato il suo destino.

E dovette far gola, a un impresario, la rappresentazione di un triangolo amoroso, che aveva molto spazio nella società borghese e aristocratica dell’epoca, con la conseguente curiosità/morbosità di sapere come andasse a finire una vicenda adulterina; più drammatica fosse stata la sua conclusione, più godibile appariva  prendendo spazio sui giornali e nelle chiacchiere dei salotti. Tanto più che, se la colpa della moglie fosse stata punita dal marito tradito con l’eliminazione della donna, non ci sarebbe stata punibilità alcuna nei confronti di quello che oggi si considera un assassino, perché il delitto d’onore consentiva l’esenzione dal carcere.

Cambiata la morale e sdrammatizzato il tradimento, al massimo considerandolo una relazione senza conseguenze sanguinarie, la vicenda sviluppata da Pirandello rappresenta oggi un teorema da rappresentare logaritmicamente, senza concedere quanto più è possibile spazio a sentimenti passionali, mettendo invece in evidenza il crescendo musicale dello status in cui si trovano i tre personaggi, fino alla soluzione finale, con lo scioglimento dell’interrogativo matematico e inevitabile.

E infatti la regia di Bezzi punta sulla presenza, fin dall’inizio, del personaggio di Andrea Fabbri, il marito, a voler evocare quel suo ancora sconosciuto a noi – e ai due amanti – indagare sulla loro colpevole vicenda. Nero, di quel nero da patente di jettatore, Beato occhieggia a spiare fuori dalla scena, insinuandovisi a tratti con caute mosse silenziose, mentre ignari Antonio( Matteo Tanganelli) e Giulia ( Monica Belardinelli) si interrogano su qualche loro inavvertita mossa forse scoperta dall’ignaro consorte. La scena – ideata da Sergio Bezzi – incoraggia l’incalzare che è di sensazioni, di sguardi che penetrano in quelle  che, non più pareti ma vuoti spazi appena inquadrati al centro della sala, inducono a sentirsi partecipi dell’ansia della rivelazione.

Non più quindi una partecipazione sentimentale a una vicenda ormai fuori tempo, ma un gioco a cui si prestano gli attori, i tre protagonisti a cui si aggiunge, promossa da cameriera a specchio e testimone consapevole e misteriosa, la presenza di Veronica Rivolta.

Resta in filigrana la figura di Giulia – assai intensa nell’interpretazione di Belardinelli – in bilico fra  l’amore romantico ormai tramontato nei confronti del marito e il nuovo, sostituito in quella passione sacrificata dal marito per ansia di raggiungere la ricchezza in omaggio alla moglie.

Quasi un tempo di un incontro di box, la storia si sviluppa fino all’inevitabile fine, che come tutti sappiamo è il suicidio di Giulia, scacciata di casa, privata di ogni rapporto con i figli e incoraggiata dal marito ad eseguirlo, ma attribuito moralmente all’amante che ritorna inconsapevole alla casa dell’ormai nemico Andrea.

Bezzi fa smorire la luce di una lampadina, svilendo volontariamente il gesto suicida in uno spegnersi della vita di una donna ormai privata di ogni scopo ad esistere. E gli spettatori rimangono sospesi in quell’evento sdrammatizzato, fino a sciogliersi in un applauso convinto e felice nei confronti dei bravi interpreti.

Maricla Boggio – da  criticateatrale.it